“Non ci vedo più dalla fame”. Emotional Eating, la Fame Nervosa

“Non ci vedo più dalla fame”. Emotional Eating, la Fame Nervosa

 

Il DSM V, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, è ormai arrivato alla sua quinta edizione,  e vede un ulteriore ampliamento di diverse categorie diagnostiche, tra le quali figura anche quella dei Disturbi Alimentari.

I Disturbi Alimentari erano precedentemente  raggruppabili nelle due grandi categorie dell’Anoressia e della Bulimia.

Molti dei disturbi a cui oggi si è dato un nome, erano precedentemente classificati nella categoria N.A.S, che significa “non altrimenti specificati”.

Se da un lato questo ampliamento ci parla del progresso scientifico nello studio della mente umana, non si deve d’altro canto sottovalutare il rischio  di “patologizzare” ogni fenomeno psichico.

È quindi bene ricordare come l’attribuzione di un nome ad una condizione psicologica,  non ne definisce di per sé la gravità .

Perché questa premessa per parlare di fame nervosa?

Perché questa affermazione assume un’importanza particolare se parliamo di comportamenti alimentari e, nello specifico, di “Fame nervosa” o Emozional  Eating.

Si parla di fame nervosa quando il bisogno emozionale di cibo prevale su quello biologico e, pur cercando di resistere, si perde infine il controllo e si mangia una quantità eccessiva di cibo in risposta a delle emozioni tendenzialmente spiacevoli, come ansia, tristezza, preoccupazione, rabbia.

Quindi quando si mangia anche se non si è particolarmente affamati, vuol dire che dietro c’è sempre un problema di tipo psicologico?

Non è possibile pensare che  l’essere umano si nutra sempre e solo in base ad una spinta di natura biologica, priva di alcuna valenza emozionale.

Il nesso tra emozioni e cibo è certo, ma ciò non implica di per sè la presenza di problematiche psicologiche.

In qualche misura, l’uso del cibo come forma di compensazione di un disagio transitorio è quanto di più comune possa capitare.

La fame nervosa può però rappresentare un problema, quando accade troppo spesso che la capacità di controllo dell’individuo venga meno ed agli attacchi di fame seguano delle “abbuffate” che incidono sul nostro umore e sulla stima di noi stessi.

Questo fenomeno nasce come tentativo dell’individuo di rispondere al proprio disagio emotivo attraverso il cibo, utilizzandolo in maniera non adeguata.

L’ingestione di cibo infatti non “cura” il disagio, ma attiva una spirale di comportamenti compulsivi che anzi lo alimentano.

Ma cos’è che spinge un individuo a rispondere alla propria sofferenza con il consumo di cibo?

Spesso, alla base, ci sono diversi aspetti.

Intanto c’è un’emozione spiacevole, che l’individuo ha difficoltà innanzi tutto a riconoscere.

Non sempre infatti si è consapevoli di mangiare, per fare un esempio, perché “ci si sente soli”.

L’alimentazione smodata è in questo senso una sorta di “coperchio” ed è per questo che è molto importante imparare prima di tutto ad ascoltarsi.

Poi, c’è un modo “scorretto” di gestire le proprie emozioni.

Come se non si riuscisse a contenerle, trattenerle, osservarle, senza improvvisare un rimedio immediato e magari inadeguato.

Ed ecco che allora si ricorre al cibo: lo strumento più immediato per trovare soddisfazione, ciò che, facendoci sentire pieni, ci permette di non cogliere i nostri “vuoti”.

Il cibo ci riconduce alle cure primarie che abbiamo ricevuto, quando il nutrimento da parte di chi si prendeva cura di noi era anche un veicolo d’amore; quando, infine, era la bocca la nostra porta verso il mondo, da cui ricevevamo affetto, con cui sperimentavamo l’ambiente, che ci garantiva la nostra sopravvivenza.

Quando, però, in quella fase della vita, sono stati vissuti dei disagi di cui magari non si ha più memoria ed in cui si annodano conflitti irrisolti, allora sarà proprio a quella fase dell’esistenza che la persona tenderà ad “ancorarsi”, utilizzando quegli antichi canali (il cibo, la bocca) per esprimere se stessa.

Ed ecco che allora un buon principio, potrebbe essere quello di interrogarsi e cercare di conoscersi, di leggere le proprie emozioni, di intraprendere un percorso in cui si apprenda, col tempo, a cercare altrove e diversamente, ciò che ci manca davvero.

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