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Il Precariato interiore

Come il precariato lavorativo e la lunga crisi socio-economica che stiamo percorrendo, hanno inciso sul benessere psicosociale delle ultime generazioni.

Dall’inizio degli anni 2000 ad oggi,abbiamo assistito e stiamo ancora assistendo ad una crisi economica e sociale che ha cambiato profondamente il mercato del lavoro, che ha impoverito I cittadini, ampliato il divario tra persone abbienti e persone più disagiate, modificato stili di vita, prospettive, ambizioni, progetti. Il nostro secondo dopoguerra ha rappresentato un momento di sofferta rinascita per il nostro Paese e non solo, caratterizzato dal progressivo miglioramento delle condizioni economiche, sociali e demografiche.

La società è diventata nel tempo uno spazio sicuro, una sorta di solido contenitore all’interno del quale le possibilità di scelta dei singoli individui sono alimentate, ampliate e sostenute – o almeno così appariva. I figli del Dopoguerra hanno così trovato, certo con dolore e fatica, un terreno progressivamente sempre più fertile, su cui far crescere le proprie ambizioni, i propri desideri: il lavoro, la famiglia. Negli anni l’entusiasmo della rinascita ha alimentato uno spirito di fiducia, un senso di potere d’azione e di efficacia che a loro volta sono stati il concime utile al radicamento delle loro stesse estremizzazioni, delle loro stesse derive.

I figli di quei figli, nati tra la fine degli anni ‘60 e quelli’90, rappresentano una generazione che rispetto a queste trasformazioni e a quelle successive, che interverranno dalla fine degli anni 2000 fino ad oggi, occupa una posizione che potremmo definire assolutamente “trasversale”.

Una generazione che ha usato lo stesso concime dei propri padri, ma su un terreno che si è rivelato essere totalmente diverso.

Si tratta di giovani adulti che hanno usato criteri che si sono – ma a posteriori- rivelati anacronistici rispetto ad un cambiamento socio-economico radicale, che si è insediato in maniera rapida ma silenziosa. Che hanno scelto carriere, percorsi di studi che hanno necessitato di un investimento avvenuto quando tutto sembrava possibile, quando il concetto stesso di impossibilità era forse negato; un investimento che si è rivelato in molti casi fallimentare rispetto alle esigenze attuali.

Si tratta di persone che sono rimaste intrappolate, in un modo o in un altro, in un processo di definizione identitaria sociale che non ha trovato appiglio nel mondo del lavoro. Un’identità quindi che non è riuscita a formarsi o che lo ha fatto attraverso un processo troppo prolungato.

Persone che non sono riuscite ad immettersi nel mondo del lavoro in maniera stabile e continuativa e che sperimentano, nella maggior parte dei casi una precarietà che evidentemente non può definirsi solo di natura economica, ma esistenziale, identitaria. Queste persone sperimentano una instabilità che non può riguardare solo le risorse economiche -risorse economiche che comunque hanno un impatto sulle proprie potenzialità. Si tratta piuttosto di una sorta di precarietà “costituzionale”, non nei termini della immodificabilità potenziale, ma rispetto alle sue radici, alle sue origini, alla sua provenienza.

Parliamo quindi di una generazione in cui la versione ideale di sé è stata alimentata a lungo, ha permeato intere infanzie, intere adolescenze, intere gioventù, fino ad arrivare all’età adulta. Questa versione ideale di sé tardivamente si è scontrata con la realtà dei fatti, con i limiti, con I  compromessi  in una sorta di prolungamento senza termine della fase di passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Una transizione perenne, una stasi in apparente continuo movimento, la costante ricerca di una evoluzione che diviene impossibile.

La ricerca dell’identità è diventata identitaria: una gabbia, una trappola da cui è necessario e possibile uscire. Il lavoro necessario parte proprio da quell’ideale di sé di cui si parlava più sopra e dall’incontro con il reale, con il presente.

In qualche modo è necessaria una frattura,  un rito che consenta di attualizzare il passaggio dall’adolescenza all’età adulta. Uno sliding doors che può ritrovarsi in un evento, ma che può ache essere ricercato, scelto.

Non si tratta di negarsi o disconoscersi nel proprio percorso, nelle proprie scelte. Si tratta di dare spazio alla propria identità in termini nuovi, diversi, attuali. Si tratta di provare a darle voce oggi, di renderla autenticamente dinamica, quindi viva, presente. Si tratta di riappropriarsi della propria soggettività per contrastare una sorta di colonizzazione identitaria, in cui il “colone” è  un totalitarismo centrato sulla produttività e sul ruolo  sociale, rispetto al quale ci si sente come corpi estranei.

È necessario e urgente, allora, ri-conoscersi, adesso.