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La clessidra rotta: stare bene e stare male ai tempi del Covid 19

 

La grave condizione che stiamo attraversando ci colpisce duramente a più livelli, interessando una molteplicità di dimensioni e scatenando in ciascun di noi le reazioni più diverse.

Vengono colpiti i nostri affetti più importanti, limitando in molti casi la possibilità di contatto con una parte o con la totalità della nostra famiglia, con il terrore che la malattia possa toccarla o toccarci -laddove questo non sia avvenuto.

Vengono colpite le nostre relazioni più intime, messe a dura prova dall’impossibilità di contatto o, diversamente, da una condivisione coatta di spazi e tempi.

Viene toccata la nostra socialità, le nostre amicizie, il nostro tempo libero, le nostre abitudini.

È colpita la dimensione lavorativa, in molti casi anche in modo grave: smart working, cassa integrazione, calo del fatturato, disoccupazione.

È colpita la nostra progettualità, in una percezione del futuro che appare ad oggi quasi inimmaginabile.

La portata della pandemia non ha solo un costo in termini di salute pubblica, aspetto gravissimo e, per chi ha conosciuto o conosce da vicino questo virus, soverchiante.

Ma anche in termini sociali, esistenziali, economici; una portata che, se proiettata al medio e lungo termine, risulta spaventosa e di fronte alla quale, credo, non si possa fare altro che prenderne atto, considerando l’ansia, la preoccupazione, l’angoscia come vissuti inevitabili.

Stare bene, nonostante tutto: un’esperienza da comprendere

D’altro canto, in questa esperienza, si è verificato un fenomeno tutt’altro che infrequente, anche a giudicare da quanto emerge, ad esempio, sui social.

Molte persone hanno infatti individuato e sperimentato in questa esperienza una sorta di benessere inaspettato, apparentemente inspiegabile, che molti dichiarano quasi a bassa voce, nel timore di essere giudicati, o di risultare poco sensibili o di essere “anormali”.

Una condizione sperimentabile da chi non abbia conosciuto da vicino questo virus, nè subito importanti condizionamenti della propria esistenza.

Il lockdown per molti è risultato e sta risultando come una occasione- seppur dolorosa- probabilmente improponibile in altre condizioni se non che di portata analoga, di rivisitare la propria esistenza, di ritrovare una forza propulsiva che sembrava perduta, di chiudere percorsi ed aprirne di nuovi, di ritrovare un senso nella propria esistenza, di ritrovare la giusta scansione del tempo o, forse, l’esperienza di un tempo senza scansione.

Sono molteplici le riflessioni che si potrebbero tentare di ipotizzare, ma personalmente porrò l’accento su due nodi che ritengo centrali.

Essere Umani

Il lockdown non ha chiuso solo negozi ed uffici, ma anche una certa logica, certe modalità di pensiero pervasive, che avevano coinvolto e fagocitato la collettività e, quindi, gli individui.

La logica dell’individualismo, quella della competizione, della prestazione, della concorrenza appaiono oggi, forse, un po’ più fuori luogo di qualche mese fa.

Affrontare questa pandemia ha reso e rende necessario fare corpo, essere un insieme, per attraversare un’esperienza che, da soli, sarebbe una partita persa in partenza.

Questo hanno dimostrato gli sforzi fatti da ciascuno di noi, questo stanno dimostrando le tante iniziative di solidarietà che sono nate e che stanno crescendo.

Di fronte a questo, non si può fare a meno di percepire quanto certe distanze non fossero altro che costruite, fittizie, irreali.

Ce ne ricorderemo?

Un’esperienza di meditazione collettiva

La meditazione è un esercizio di consapevolezza di sè, di auto-osservazione non giudicante e non interpretativa.

È un tempo di ascolto delle proprie percezioni nel qui ed ora, spostando l’attenzione dal mondo che osserviamo a noi stessi, come soggetti percepienti ed all’atto stesso di osservare.

La pandemia, allora, non ha solo contagiato i nostri corpi, ma anche  le nostre stesse esistenze, costringendoci a fermarci e soffermarci su di esse, a subire un arresto di certi nostri percorsi, di certe nostre convinzioni, di certi nostri comportamenti, costringendoci a metterle in discussione.

                  Quanto delle nostre vite ci appartiene davvero?

Quanto la nostra presenza sui social, i nostri caffè con gli amici, le serate in discoteca, la visita dai parenti, le riunioni di lavoro, le sedute in palestra, quanto di tutto questo è davvero una nostra scelta?

Magari lo è, ma non è questo il punto.

Il punto è che è così difficile nel nostro quotidiano fermarci ad osservare la nostra esistenza e questa spaventosa esperienza che stiamo attraversando, forse ce ne ha dato l’occasione.

Così, questo tempo sospeso che stiamo sperimentando, spezzando certe logiche, certe scansioni del tempo, rendendoci temporaneamente e sotto certi punti di vista non responsabili delle nostre scelte, si è forse tramutato in una sorta di “contenitore”, proprio come quello spazio temporale che si decide di dedicare alla meditazione, dove i nostri usuali processi di pensiero vengono temporaneamente sospesi, nel tentativo di fare un’esperienza “altra”, dove il fare, il pensare, il proiettarsi sul passato o sul futuro, cedono il passo al presente, al qui ed ora ed al “sentire”.

Potremmo forse dire, allora, di aver sperimentato l’esperienza del “sentire il tempo”, invece di vederlo semplicemente scorrere, proprio come se, per errore, rompessimo una clessidra e ci trovassimo a contemplarla, nel tentativo di comprendere come rimediare.

Di fronte ai tempi difficili che si stanno profilando e che già iniziano a manifestarsi, potremmo allora provare a ricordarci di questa esperienza, come fosse, almeno simbolicamente, una sorta di antidoto allo scorrere dell’esperienza.